Memorie

Riporto qui nel sito un mio articolo apparso qui.

Ringrazio di cuore gli amici di Psicologia Fenomenologica.

 

Ho pensato di iniziare questo racconto in occasione della ricorrenza del centesimo anno dalla nascita di Franco Basaglia partendo da un ricordo. Siamo negli anni Duemila. A quel tempo ero studente di psicologia ad indirizzo clinico e di comunità presso l’Università di Padova. Attraverso il corso di Psicopatologia Generale – docente era il prof. Giovanni Colombo – ebbi modo di entrare in contatto con quello che rimaneva della realtà manicomiale dopo l’apertura (o la chiusura) di tali istituti grazie all’opera condotta proprio da Franco Basaglia attorno agli anni Ottanta. Mi ritrovai così a contatto con alcune “esistenze sepolte tra le rovine della follia”[1]: ero arrivato al manicomio dei Colli, o per meglio dire – come si diceva allora – all’ex ospedale psichiatrico dei Colli, località Brusegana, a Padova. L’esperienza, in piccoli gruppi e guidata tra gli altri da un team di psicologi in formazione di stampo “ferliniano[2], mi avrebbe permesso di incontrare i cosiddetti residui manicomiali, termine che mi è sempre rimasto particolarmente impresso, insieme alle immagini intrise di lezzi e di fetori provenienti da quei luoghi. Sarà per questo che adesso, a 43 anni, mi sono messo a distillare oli essenziali, fondando una azienda agricola ed occupandomi, oltre che di psicologia e psicoterapia, anche di terapia con gli oli essenziali, tentando di comunicare e diffondere questi sottili rimedi aromatici all’interno, tra gli altri, di ambienti come le case di riposo, dove l’impiego di queste sostanze, per lenire stati di sofferenza ma anche per riattivare memorie olfattive risulta cruciale, laddove la parola o il semplice gesto non possono arrivare. Risale ai primi anni Duemila anche l’incontro, presso l’Università di Padova, con Gilberto Di Petta, grazie al dinamismo e alla forza propulsiva di Giorgio Maria Ferlini, Maria Armezzani e Ludovico Paternello. Da lì la mia tesi di laurea, avente al centro la rivista ‘Comprendre’, fondata nel lontano 1988 dal compianto Lorenzo Calvi.

Questo mio breve contributo, con dono di sintesi, si articolerà così attraverso varie vie, che avranno a che fare con il ricordo, con la memoria, con l’estremo tentativo di esorcizzare un pericolo, una possibilità, ovvero che il curante si trasformi in curato. Ciò che avverrà, o che si cercherà di fare, è fornire al lettore interessato un affondo su una linea di ricerca e di intervento partendo – e non potrebbe essere diversamente – dalla mia storia personale. Quello che mi aspetto è di riuscire a suscitare un’atmosfera sospesa, umbratile, sfrondando di qua e di là alla ricerca di una lichtung, di una “radura”, come ebbe a dire Heidegger. Lascerò il più possibile che la scrittura faccia il suo corso a partire dalla pratica di un linguaggio, quello fenomenologico, che mi è familiare, frequentando ormai da più di vent’anni (anche) gli spazi e i tempi della psicopatologia fenomenologica. Si cercherà infine di farlo attraverso l’impiego dei più che sufficienti (per chi scrive) tecnicismi, provando a raggiungere una platea la più ampia possibile. Altra parola chiave per poter comprendere questo esercizio è reverie, un abbandono e un fantasticare allo scopo di rievocare e al contempo commemorare quel periodo trascorso all’interno delle mura del manicomio dei Colli. Un intero anno, intenso, dove, da aitante e sfrontato studente qual ero, mi capitò di incappare in Tamara, la donna “scotchata” per evitare che la propria tricotillomania potesse portarla troppo lontana o troppo vicina alla fine; in Maurizio, il masturbatore da giardino; in Giancarlo, in Lorenzo e molti altri il cui nome si è smarrito nelle nebbie del tempo.

Ma perché rievocare? Come scrivevo più sopra, questi ricordi mi consentono di recuperare una traccia identitaria, permettendomi di capire un po’ meglio chi sono nel momento in cui attivo questa operazione, o questo esercizio, e così prendere le distanze da eventuali scenari che potrebbero far presagire uno scivolamento verso condizioni di sofferenza. In altri termini, nel caso specifico dello scrivente, frapporre una distanza – vista non come separazione, ma come differenza tranquillizzante – tra il me stesso operatore della salute e la persona da seguire, da aiutare, con la quale interloquire, ovvero il paziente, il cliente, colui che cerca da colui che può offrire qualcosa.

Cosa è rimasto infine di quelle immagini, di quei corpi, di quei vissuti, dopo più di 20 anni? Che influenza ha avuto la frequentazione del manicomio nella mia pratica clinica, condotta sia privatamente, a contatto con i pazienti, che in contesti pubblici, presso alcune istituzioni, cooperative sociali o enti statali come la Guardia di Finanza di Predazzo, luogo nel quale da qualche anno sto conducendo un’attività di consulenza come psicologo, attivando su richiesta lo sportello di ascolto o animando sovente i gruppi di confronto con dei giovani allievi finanzieri?

Certamente è rimasto il tema, il dubbio, la perplessità ma allo stesso tempo il filo rosso che mi lega alla diagnosi psichiatrica o psicopatologica come dispositivo conoscitivo. È indubbio il fascino e allo stesso tempo il timore, il clamore in alcuni casi della diagnosi inferta/subita/trasmessa/diretta da un professionista psi verso un paziente. La comunicazione della diagnosi da parte del professionista è in grado, in altri termini, di costituire un prima e un dopo. Per noi operatori psi è seducente sapere che le persone che incontriamo ripongono fiducia in questa nostra conoscenza, perché lì vi è anche la risposta ai loro dubbi, ai loro bisogni. La diagnosi dona cioè sicurezza: dice in sostanza cosa si ha, più di ciò che si è (ma talvolta è anche così); si può di conseguenza prenderne le distanze, direzionandosi verso il cambiamento oppure sentirsene sommersi, oppressi, se questa è invasiva, intrusiva, infausta.

Se guardo alla mia libreria scopro che negli anni moltissimi volumi, moltissimi titoli, riportano la diagnosi come argomento principale. I sistemi diagnostici hanno subito e subiscono critiche, in essi riposano le speranze di aver individuato la strada migliore. Il dibattito che ne scaturisce anima molti colleghi, molti scienziati, studiosi: tutto ciò raggiunge una portata che impressiona per le prese di posizione, anche radicali, ma è certamente interessante osservare e anche partecipare a questa sfida all’individuazione del sistema diagnostico più opportuno, fino ad arrivare alle posizioni estreme che o negano qualsiasi possibilità di valore insito nel diagnosticare in psichiatria oppure all’opposto si presentano come strumenti privi di autocritica e fermi nella loro fissità e certezza apodittica.

E nel mio caso, mi chiedo, la diagnosi, come viene usata? Pur non conducendo percorsi con fini psicodiagnostici, mi capita nella mia pratica di impiegare il “verdetto” emesso da altri colleghi per i miei fini, che sono quelli di costruire una dimensione di senso con i pazienti; consapevole che lo spazio e il tempo d’utilizzo del dispositivo per me è limitato, o forse cerco di fare in modo che la diagnosi – se presente – occupi il “giusto”, qualsiasi cosa il giusto o lo sbagliato possa significare; mi faccio guidare inizialmente da ciò che per il mio interlocutore la diagnosi rappresenta, cercando poi di farmi guida e svincolo verso altri lidi.

Sperando, questo sì, sempre, in un approdo felice.

Bibliografia:

– Di Petta, G. (1994), Il manicomio dimenticato – Immagini di esistenze sepolte tra le rovine della follia, EUR Edizioni, Roma.

– Piero Turchi, G. & Perno A. (2002), Modello medico e psicopatologia come interrogativo, UPSEL, Padova.


Note:

[1] Questa espressione deriva direttamente dal sottotitolo del bel libro scritto da Gilberto Di Petta “Il manicomio dimenticato – Immagini di esistenze sepolte tra le rovine della follia”, EUR Edizioni, Roma, 1994.

[2] Giorgio Maria Ferlini, professore di psichiatria presso l’Università di Padova, è stato promotore dell’ingresso della fenomenologia di stampo psicodinamico all’interno dell’accademia patavina. Costanti i suoi rapporti e riferimenti a Salomon Resnik, Paul Claude Racamier e Gaetano Benedetti. Fondatore dell’Istituto Aretusa.